mercoledì 31 marzo 2010

I “Racconti” di Edgar Allan Poe – Il mondo problematico di un genio

Gianpaolo Repici

Edgar Allan Poe ha avuto una vita piuttosto breve, ma ha scritto davvero molto. La stragrande maggioranza delle sue opere, tuttavia, è perduta nei giornali del tempo: era un giornalista, talmente bravo che, nel periodo in cui scrisse per il Gentleman’s Magazine (poi ribattezzato Graham’s Magazine), ne fece schizzare vertiginosamente la tiratura da cinquecento copie iniziali a quarantamila.

Basti questo per definire lo spiccato talento di questo giovane bostoniano in campo giornalistico. Si affermò come critico, scrittore e polemista implacabile. Cercò ambiziosamente il successo, e dopo un po’ l’ottenne; ma la sua vita privata fu scossa e tormentata da drammi e instabilità di ogni tipo. La morte di entrambi i genitori, il difficile rapporto col tutore John Allan, le difficoltà economiche, la mente eccezionalmente sensibile e fragile, la malattia incurabile della giovane moglie, sua cugina Virginia; tutto questo lo portò all’uso sistematico di droghe e alcol, fino alla morte per delirium tremens, avvenuta a quarant’anni in circostanze piuttosto misteriose e mai ben chiarite.

Poe fu così un poeta maudit ante litteram, che suscitò, col suo stile di vita dissennato e bohèmien, l’ammirazione di coloro che più di consueto vengono definiti poeti maledetti, Baudelaire per primo. Quest’ultimo, in particolare, lavorò per più di dieci anni sui testi originali del Poe, traducendoli in francese e commentandoli. È a lui, a tutti gli effetti, che si deve l’ingresso di Edgar Allan Poe nella cultura europea.

L’analisi psicologica dell’autore ha spesso portato a ravvisare in tutto ciò che ha scritto gli effetti visionari del laudano e dell’alcol. Negli ultimi anni, però, la critica ha cercato di staccarsi da questi clichés, ritrovando negli scritti del Poe l’originalità di un autore di talento.

L’opera di Poe, fatti salvi gli articoli di giornale, si articola su due filoni principali, potremmo dire tre: quello poetico, in cui tuttavia non brillò quanto avrebbe desiderato, quello romanzesco con l’unico caso di Storia di Arthur Gordon Pym e quello dei racconti, che lo consegnarono alla storia, facendone uno dei pilastri della letteratura d’oltreoceano. A questi tre filoni si aggiunge una serie di trattati.

Gabriele Baldini individua due principali aspetti nel modo di scrivere di Poe: un primo aspetto è quello puramente speculativo, un altro è quello del dramma poesco, di cui fa parte la maggior parte dei racconti.

Con il filone speculativo Poe si scopre precursore del genere poliziesco, prima di Simenon, Chesterton, Conan Doyle. I delitti della rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt e, soprattutto, La lettera rubata, rappresentano dei capolavori induttivi e dal forte impatto teatrale. Personalmente, trovo pazzesco il caso de Il mistero di Marie Rogêt.

L’autore era rimasto colpito da un episodio di cronaca nera che aveva scandalizzato il Paese. Interessatosi alle indagini “a distanza” (si trovava infatti in tutt’altra parte degli Stati Uniti), lesse tutti i giornali, selezionandone le notizie e ritagliandone trafiletti, senza trascurare di prestare attenzione anche agli episodi di contorno, agli altri eventi contemporanei. Scrisse quindi un racconto speculativo, in cui, seguendo il solo filo logico e gli indizi messi insieme, svelò di fatto la dinamica di quanto accaduto. Le sue ipotesi si rivelarono quasi completamente corrispondenti al vero, tanto che due testimoni, a distanza di tempo, confermarono per filo e per segno quanto da lui congetturato.

Direi che questi racconti, quelli “polizieschi” intendo, sono una bella lettura: avvincenti, di lunghezza non troppo contenuta, sono lontani dall’inquietudine di un altro filone dei racconti del Poe, cioè quelli che costituiscono la raccolta “Racconti del terrore”. Gli scritti di quest’ultimo, nutrito gruppo, sono generalmente più brevi, e intrisi di un’atmosfera macabra, noir, psicologicamente devastata. Il lettore non può affrontarli in maniera rilassata, e leggerli tutti uno dopo l’altro può risultare perfino greve e opprimente. Al contempo, però, essi raggiungono vette davvero uniche: Il cuore rivelatore, Il pozzo e il pendolo, L’uomo della folla, William Wilson, Ligeia ne sono solo alcuni esempi.

Quelli di Poe non sono personaggi, sono figure che emanano dalla necessità dell’autore di mettere in scena un certo dramma, il dramma della vita portato all’esasperazione. Manca del tutto la loro analisi psicologica. Essi si muovono su un palco straordinario, concreto come pochi: l’ambiente di contorno è il protagonista, le figure sono solo incarnazioni contingenti di ciò che l’autore vuole comunicare. Presi di per sè, quei personaggi sono totalmente incoerenti, non potrebbero mai avere vita propria a prescindere dalle particolari condizioni in cui li cala il Poe. Numerose le figure di donna debole e malata, destinata a morire per poi tornare in qualche modo sovrannaturale a turbare la vita del narratore (Morella, Ligeia, Berenice, Il crollo della casa Usher, Eleonora). Numerose, altresì, le azioni compiute senza un’apparente ragione da parte di quest’ultimo: « E’ impossibile stabilire in che modo quell’idea m’attraversò il cervello la prima volta. Io so solo che, una volta concepita, essa mi ossessionò giorno e notte. […] Immagino che fosse il suo occhio! Sì, era quello senz’altro! […] E a poco a poco, lentamente, io m’ebbi fitto in capo quel pensiero di togliergli la vita e di sbarazzarmi così, per sempre, di quel suo terribile occhio.» (Il cuore rivelatore).

La ragione vera di azioni come quella cui si fa riferimento va forse cercata in certe profondità dell’animo del tutto insondabili, e soltanto raffigurabili per mezzo del dramma che il Poe mette in scena; intuibili, per così dire, dal lettore, ma mai chiaramente esplicitate.

Una scrittura, quella di Edgar Allan Poe, da cui traspaiono una profonda cultura e una mente poliedrica. Per i nostri standard, in quanto ottocentesca, potrebbe apparire a taluni un po’ forzata, ampollosa se vogliamo, arzigogolata in certi punti. Negative, a mio avviso, le citazioni non tradotte da lingue straniere; il lettore non è tenuto a conoscere il greco e il tedesco per poter comprendere il senso di un racconto. D’altro canto ciò che si guadagna è una ricchezza lessicale che spinge addirittura a cercare il significato di alcune parole sul dizionario (segno, secondo me, assai positivo in un libro); un plauso va quindi a chi si è occupato di tradurre il testo originale (nell’edizione in mio possesso, Gabriele Baldini e Luciana Pozzi).

E’ bello scoprire che l’italiano possiede un’infinità di gole e anfratti inesplorati dai più. La nostra lingua è in grado di comunicare molte sfumature che di norma si preferisce nascondere, saturando i colori pur di raggiungere una semplicità forse eccessiva. Ciò che lascia un tantino sconcertati è che, per avventurarsi in questi anfratti, il lettore debba cercare nella letteratura di due secoli fa, anziché in quella contemporanea.

mercoledì 3 marzo 2010

Il Broker: John Grisham e il thriller “italiano”

Gianpaolo Repici

Quando ci si propone di effettuare una rapida analisi di uno dei libri di narrativa “leggera” più noti degli anni Duemila, scritto per giunta da uno degli autori più noti degli ultimi decenni, che la rivista Publishers Weekly ha dichiarato “lo scrittore maggiormente venduto degli anni Novanta”, credo che la prima domanda cui occorre rispondere sia: “Il successo del libro/autore è davvero meritato?”.

Ho letto “Il Broker” di John Grisham senza che conoscessi alcun’altra opera dell’autore; sapevo che i suoi libri vengono classificati come “gialli giudiziari”, e poco altro.

Il Broker non è certo un giallo giudiziario; credo sia più propriamente un thriller, ma a mio avviso esula dalla connotazione classica di questo genere.

La trama, detta per sommi capi, è questa: un potentissimo avvocato lobbista di Washington viene condannato a vent’anni di carcere per motivi di spionaggio. Dopo soli sei anni gli è concessa la grazia presidenziale, esce di prigione e viene condotto in Italia, dove assume una nuova identità e cerca di rifarsi una vita, mentre vecchi nemici si mettono sulle sue tracce per fargliela pagare.

Non dirò altro per non prevaricare la curiosità dei lettori; tuttavia, da queste poche righe si capisce che il genere del thriller appare quello più idoneo per classificare il romanzo. Spionaggio, nemici in movimento, aggiungiamoci CIA e servizi segreti di qualsivoglia nazione, ed ecco la ricetta perfetta per un thriller.

Il colpo di genio di Grisham è stato quello di ambientare gran parte della vicenda nel nostro Belpaese. Mi ha insegnato molto di più lui sulle consuetudini e le caratteristiche peculiari di noi Italiani rispetto a innumerevoli passeggiate per le vie del centro.

Questo popolo, che Grisham studia con gli occhi dello straniero, da un canto mette in luce alcuni aspetti riconducibili a famosi luoghi comuni, dall’altro, tuttavia, manifesta abitudini totalmente inattese. E quando ci si immobilizza, leggendo, e si riflette per qualche secondo, e si pensa tra sé: ‘Caspita, ha ragione, è proprio così! Noi siamo così!’, beh, allora è proprio il caso di dire che l’autore ha fatto centro.

A onor del vero, ci sono anche casi opposti (qualcuno di voi ha mai sentito dire che in Italia è maleducato ordinare un cappuccino dopo le dieci e mezzo di mattina?), che tuttavia quasi rinfrancano l’animo: in fin dei conti, se non commettesse alcun errore, Grisham sembrerebbe più “italiano” di molti di noi…


Ecco allora che la trama, per quanto ricca di spunti che, se maneggiati da altri autori, porterebbero suspense e fretta di leggere, si snoda con calma, come un placido fiume dall’ampio letto, qua e là insinuandosi in una folkloristica descrizione delle vie bolognesi, altrove in un richiamo storico intriso di sarcasmo. Spesso lo scorrere del tempo sembra fermarsi: i personaggi si siedono in un ristorante per fare pranzo, senza fretta, e il protagonista si stupisce di quante ore gli Italiani siano disposti a dedicare al cibo e alla buona cucina; per lui, che viene dalla realtà dei fast-food, tutto ciò sembra assurdo.

Con una cornice assolutamente nostrana, e carica di una magistrale ironia persino nei momenti più delicati, la trama tipica del thriller prende infine il sopravvento: il tempo comincia a stringere e i nemici si fanno sempre più vicini, in un crescendo finale che accelera i battiti del cuore e stuzzica la curiosità, fino alla conclusione. Il lettore potrà godersi ancora una nota dell’autore, straordinariamente autoironica: “E’ tutta fantasia, ragazzi. Ne so ben poco di spie, di sorveglianza elettronica […]. E se qualcosa in questo romanzo si avvicina alla realtà deve essersi probabilmente trattato di un errore.”

E ancora, un tributo al nostro Paese (che a quanto pare è più amato dagli stranieri che da coloro che vi abitano): “Bologna, comunque, è tutt’altro che fantasia. Mi sono concesso il lusso, dovendo scegliere un posto dove nascondere il signor Backman, di lanciare una freccetta su una carta geografica. Un paese valeva l’altro, più o meno; ma io adoro l’Italia e tutto ciò che è italiano, e devo quindi confessarvi che quando ho lanciato quella freccetta non avevo gli occhi bendati.”
Che dire? Grazie, Grisham. Ora non vedo l’ora di acquistare un altro tuo libro, e di andare a visitare Bologna.

giovedì 25 febbraio 2010

I Pilastri della Terra

Silvia Gregoriani

Il successo di “Mondo senza fine”, l’ultimo acclamato romanzo di Ken Follett, ha stuzzicato in me la voglia di conoscere il best seller cui deve ispirazione: “I pilastri della terra”.

Ambientato nell’Inghilterra del XII secolo il romanzo copre il turbolento cinquantennio che conobbe la guerra civile, dal naufragio della White Ship (il vascello che trasportava il figlio di Enrico I, erede al trono d’Inghilterra) fino alla morte di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Intrighi, amori e lotte per il potere costituiscono un fitto intreccio che affascina per la potenza descrittiva fino a sfiorare la dimensione epica.

Ma “I pilastri della terra” è molto più che un semplice bel romanzo. Racchiude infatti, a mio avviso, il principio filosofico secondo il quale esiste una giustizia superiore che governa il fato, alla quale il mondo non può sottrarsi. La scelta dell’ambientazione, in tal senso, non è casuale: il Medioevo è forse il periodo per eccellenza in cui intere nazioni sono piagate dalla forza bruta e dall’oppressione dei potenti. Ed è proprio in questo scenario che si apre il libro ed articola la vicenda. Nelle acque oscure della prepotenza e dell’odio nuotano personaggi come il vescovo Waleran e William Hamleigh, che sembrano schiacciare inesorabilmente coloro che cercano di vivere onestamente e lottare per la virtù. Gli ingranaggi della giustizia, tuttavia, seppur lenti si muovono inesorabili, riportando ordine ed equilibrio. Ciò non significa che tale meccanismo sia perfetto in sé stesso, e dunque basti attendere passivamente perché giustizia sia fatta. Al contrario, bisogna lottare con tutte le proprie forze, nonostante le avversità, ma fiduciosi che il duro lavoro prima o poi darà i frutti sperati. E in quest’ottica agiscono i personaggi, anche i più ferventi religiosi. Follett infatti con questa filosofia abbraccia anche la religione: neppure la fede basta in sé stessa. La dimostrazione è che Philip dovrà lottare tutta la vita, così come Thomas Becket.

Forse la mia analisi si spinge oltre l’intenzione dell’autore, pretendendo di far affiorare qualcosa che non esiste. Ma mi sembra che grazie a questa consapevolezza Follett tracci personaggi molto lontani dai soliti stereotipi. Un amico mi ha fatto notare come, secondo lui, tali figure appaiano troppo emancipate ed “illuminate” per essere credibili in una simile ambientazione storica. Non sono d’accordo. La forza di Follett sta, a mio avviso, nell’aver abolito il binomio stereotipato Medioevo – poca capacità di pensiero. Se è indubbio che si tratti di un periodo storico in cui Chiesa e potenti cercano di soggiogare il popolo con l’ignoranza e la paura (non a caso si parla di secoli bui), è pur vero che l’uomo non ha mai smesso di pensare con la propria testa. Certo si tratta di casi isolati in un mondo che viaggia in direzione contraria, ma credo fermamente siano sempre esistiti personaggi simili, capaci di guardare il mondo coi propri occhi. Troppo spesso capita di veder banalizzare la forza dell’uomo. In fondo, a ben pensare, una situazione simile è solo apparentemente lontana dai nostri giorni.

In un mondo agli antipodi dove l’informazione è a portata di mano, ma quasi sempre “filtrata”, molti sono convinti di poter discernere la verità. Ma quanti ne sono davvero capaci? E forse è per questo che “I pilastri della terra” mi affascina tanto.

venerdì 5 febbraio 2010

L'Educazione Sentimentale: Flaubert Tra Amore E Rivoluzione

Alessio Mazzucco

Che felicità poter salire fianco a fianco,
con il braccio attorno alla vita di lei! La sua gonna avrebbe
spazzato le foglie ingiallite, mentre lui ascoltava
la sua voce, nella luce radiosa dei suoi occhi
Capitolo Primo

Ho letto L’educazione sentimentale durante le vacanze natalizie. In montagna, la sera, dopo lunghe giornate di studio passate ammirando la neve splendente sotto il pallido sole invernale, mi ritiravo dalla saletta comune dove la mia famiglia preparava la cena, e mi buttavo sul letto dicendo forte: “Me ne vado a Parigi”. Un po’ retorico forse, ma incredibilmente vero.

È il 15 settembre 1840, e Frédéric Moreau intravede e conosce l’amore della sua vita, Mme Arnoux, donna sposata d’una bellezza assai graziosa, così pura agli occhi d’un giovane appena maggiorenne. Da lì la storia: passano gli anni, l’Università di legge, gli esami mal preparati, distratto da feste, amici, gli amori, il sogno d’una rivoluzione e di un mondo nuovo. Poi la Rivoluzione, il 1848, la Repubblica, per finire nel 1851 con il Colpo di Stato di Napoleone III, la fine dei sogni, la morte degli ideali. In realtà non una trama avvincente, quanto estremamente coinvolgente: Frédéric non partecipa; egli sogna, desidera, spera e rincorre strade troppo diverse per essere percorse insieme, e rimane, così, spettatore d’un cambiamento, in balia delle emozioni del momento, lentamente svuotato da ogni ideale o speranza.

Un libro eccezionale, figlio del realismo francese (di cui Flaubert fu, insieme a Stendhal e altri, uno dei fautori e maestri), capace d’imprimere nella mente l’idea d’una Parigi ottocentesca (estremamente affascinante a dir la verità), sognante e un po’ libertina, di dipingere il quadro di una rivolta, trasformatasi in breve in rivoluzione, di un governo d’idee, poi della rivoluzione borghese.

1848: che anno meraviglioso! La rivoluzione in Francia del ’48, le prime Costituzioni italiane (tra le altre lo Statuto Albertino: 4 marzo), le rivolte che infiammano l’Europa (le Cinque Giornate di Milano, Vienna, Venezia,…), il desiderio d’unità nazionale, di realizzazione dell’eguaglianza sociale, di cambiamento e riscossa dei popoli oppressi. E’ del 1848 il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, “Uno spettro s’aggira per l’Europa”, sintomo di quella volontà di riscatto e rivolta che infiamma l’intero Vecchio Mondo (anche se in realtà ispirato proprio alle rivolte parigine). Venne quindi la delusione, i borghesi dell’industria (sto ripensando alla Francia) s’imposero sul popolo, permettendogli di sognare la libertà mentre i fabbri della politica forgiavano catene più temprate e difficili da spezzare; vennero le sconfitte: la campagna fallimentare di Carlo Alberto tra il 1848 e il 1849 contro gli Austriaci di Radetzky (I guerra d’indipendenza), la caduta della Repubblica Romana nel 1849 (dove, tra gli altri, trovò la morte Goffredo Mameli), la resa di Venezia,… . Come ogni incendio, le fiamme vennero domate, i cuori palpitanti trafitti. A dirla con le parole di Flaubert: “L’altro, allora, fece un passo avanti e gridò: ‘Viva la Repubblica!’. Cadde riverso, le braccia in croce. Un urlo di orrore si alzò dalla folla. La guardia si fece il vuoto intorno con lo sguardo”; così l’autore incide l’epitaffio sul glorioso sepolcro degli ideali rivoluzionari.

Flaubert fu assai critico, in realtà, nei confronti dei singoli rivoluzionari, grandi gli ideali, troppo miopi le visioni: ecco cosa determinò la vera sconfitta delle idee e del cambiamento. Ipocrisia, ideologia, egoismo a volte, ignoranza. La storia, si può dire, si ripete in ogni tentativo di riscatto e cambiamento (non viene risparmiato neppure il nostro ’68, così belli gli ideali, così rapida la caduta verso l’ideologia e il nulla). Fallimento o vittoria, miopia o no, almeno all’epoca v’erano idee da elevare tra le fiamme delle rivolte. Un libro da leggere; sicuramente, adesso, uno dei miei preferiti.

venerdì 27 novembre 2009

La Donna Baudelairiana: Ossimorica Incarnazione Di Un Raggio Lunare

Jenny Luchini

“Mentre dormivi nella tua culla, la Luna, che è il capriccio in persona, guardò alla finestra e disse- Questa bambina mi piace-”. Inizia così il poemetto in prosa di Charles Baudelaire intitolato “I benefici della luna” ("Les bienfaits de la Lune”), contenuto nella raccolta “Spleen di Parigi”(composta tra 1855-1864) e non di certo una delle opere più conosciute del poeta maledetto.

L’ incipit rappresenta una sorta di battesimo spirituale,un effluvio sensualmente oscuro che la luna infonde nella donna, ancora bambina, legandola eternamente a lei. Le dona l’incanto esteriore, occhi verdi, carnagione d’opale,ma non solo questo;come una dolce tiranna impone sulla donna la sua eterna influenza, i suoi stessi amori e capricci. La donna, come la Luna stessa, sarà quindi legata all’acqua, tranquilla o multiforme (antico simbolo di fertilità), alle nuvole, alla notte e al silenzio, ai gatti flessuosi e languidi. Ma soprattutto sarà attratta dal luogo in cui non è, e dall’amante che non conosce. Sarà corteggiata da coloro che amano la Luna stessa,da quegli uomini così simili al poeta, cioè a quel nemico del sonno che in una altro bellissimo sonetto, “tristezze della luna” (contenuto in “Spleen e ideale”) sarà lì, pronto a raccogliere le lacrime dell’astro, e a conservarle come un talismano, per poi incastonarle tra i versi di una poesia.

Infatti in quest’ultimo sonetto, seppur precedente al poemetto, l’identificazione Luna- Donna è ancora più forte, supportata da un voluto gioco di ambiguità. La donna non è più una bambina, o meglio, è la luna che, in una serata malinconica, diventa donna,e stesa mollemente sui suoi cuscini, si accarezza distrattamente i seni nell’estatica e narcisistica contemplazione di sé stessa.
Così come la luna ha due volti, anche la visione di Baudelaire riguardo al mondo femminile è ambigua. C’è il lato chiaro, luminoso, permeato direttamente di fascino e luce angelica, che porta a identificare la donna con la realizzazione di un riscatto o con la salvezza divina. La donna, come la luna, arrotonda il suo ventre e contribuisce al ciclo della vita, e con i suoi ritmi regolari fa da eco all’astro celeste, che per antonomasia scandisce i battiti del tempo.

Ma tutto sembra essere smentito, e prevale il volto oscuro del femminino quando ad esempio Baudelaire descrive la donna come riflesso della temibile divinità, come intossicante madrina portatrice di malefici, prostituta o anche forma seducente del diavolo.

Il poeta maledetto lungo tutta la sua opera ci presenta quindi la donna come una “maledetta e cara bambina viziata”, una figura di luci ed ombre, dal fascino dolce e malvagio, un degno granello di polline dei “Fiori del male”, ossimoro costante e sempre in equilibrio tra poli opposti, tanto da essere sempre un soggetto estremamente attraente da analizzare e interpretare.

martedì 17 novembre 2009

Leggere E' Un'Arte E Una Filosofia!

Gianpaolo Repici

Pochi giorni fa chiacchieravo con alcuni membri di questo giornale di come ciascuno intenda la lettura, con quale stato d’animo essa vada affrontata e in che modo una persona debba approcciarsi ai libri che vuole leggere. La chiacchierata, ricca di spunti interessanti, mi ha portato ad estendere il dibattito a tutti coloro che leggono o scrivono su Il Caffè.

“Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo del vivere” scriveva Daniel Pennac. Mi trovo in perfetto accordo. Una delle cose che ho patito di più dopo la transizione liceo-università è stata l’enorme difficoltà di trovare del tempo libero per leggere; sentivo che mancava qualcosa, che in qualche modo mi stavo inaridendo interiormente. Finché non mi sono imposto di tornare a leggere con costanza, ricavandomi almeno qualche minuto ogni giorno. Ma veniamo a noi: il motivo del “conflitto” verbale coi miei colleghi de Il Caffè è riconducibile al modo in cui si legge, alla filosofia che ci sta dietro e ai criteri con cui si scelgono i libri.

Ho una lunga coda di libri da leggere, e ad ogni testo di narrativa contemporanea alterno un classico o un saggio. Mi sono imposto di non decidere in base all’istinto cosa leggere: ho impilato tutti i libri in coda e li ho rinchiusi in uno zaino, in modo tale che in cima alla pila ci sia quello che, cronologicamente, è entrato in mio possesso per primo (per chi s’intende di logistica o informatica, è una coda FIFO bella e buona!). Quando termino la lettura di un testo, mi limito ad aprire lo zaino e pescare il libro successivo. Non scelgo cosa leggere, non valuto quale testo mi sembri più interessante in quel momento, tra quelli a mia disposizione. I miei colleghi sostenevano invece che ognuno debba leggere ciò che più gli aggrada: posto di fronte a tutte le alternative, deve poter scegliere quella più allettante per lui, nello stato d’animo in cui è. La trovo un’opinione molto “romantica”, istintiva, e in questi termini non nascondo alcun giudizio negativo. Ma io sono anche uno scrittore, e cerco d’immedesimarmi in chi scrive: ritengo che a chiunque debba essere data la possibilità di dire ciò che crede, e di essere ascoltato. Quello che Voltaire disse, e che è stato citato di recente su queste pagine: “Non condivido quello che dici, ma farò di tutto affinché tu possa dirlo”, io lo applico alla lettura. Posso guardare all’opera di uno scrittore storcendo il naso, mosso dai preconcetti, ma voglio dare a tutti almeno una possibilità. Sentire ciò che vogliono raccontare. Capire perché abbiano speso mesi o anni della loro vita per realizzare il loro libro: elaborarlo, scriverlo, correggerlo, stamparlo. Sudore e fatica: anche solo questi rendono la loro opera degna di essere, se non apprezzata, esaminata.

Come posso dare a tutti questa possibilità, se mi limito a scegliere i libri che più m’interessano? Come posso essere imparziale, se decido in base ai miei gusti? E qui intendo fare un passo in più: sono convinto che, se mi si lascia carta bianca in fatto di scelta dei libri, io tenderò a procurarmi quelli che più sicuramente incontreranno il mio gradimento. Ma questo non significa altro, se non che quei libri in qualche modo rispecchieranno il mio modo di essere. In altre parole, io come lettore “crescerei” vedendo intorno a me solo cose simili a quelle che penso io. E trovo che questo sia sbagliato. L’esperienza della lettura, oltre che un intrattenimento, dev’essere innanzitutto formante. È uno dei più potenti mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone, e come tale va usato. Ridurre la lettura a semplice passatempo è a mio avviso sbagliato, e svilisce l’opera di chi, scrivendo, ha voluto comunicare al mondo qualcosa. Aprirsi a libri che d’istinto non si leggerebbe, ad autori che già si sa essere allineati diversamente da sé, a stili di scrittura lontani da quelli prediletti, tutto ciò può essere faticoso. Ti costringe a metterti in dubbio, a confrontare le tue opinioni e i tuoi gusti con altri differenti, forse conflittuali. Questo appare tanto più palese nel caso dei saggi o della narrativa “impegnata”, ma anche la narrativa “leggera” se ne fa portavoce, a suo modo.

Non affermo di dover leggere solo cose lontane dai propri gusti, perché si perderebbe quel sapore piacevole che la lettura di un’opera gradita porta sulle labbra. Leggere non dev’essere un obbligo o un peso. Se ho sperimentato che un autore proprio non mi piace, non comprerò una seconda volta un suo libro, e magari “tirerò il fiato” tornando da uno dei miei scrittori preferiti; ma gli ho dato una possibilità. Siamo umani, abbiamo delle opinioni, prediligiamo certi stili ad altri; ma è corretto, di tanto in tanto, se si riesce anche frequentemente, fare capolino al di fuori della nostra sfera privata, solida e protettiva. Guardare oltre, effettuare un’incursione nella sfera di qualcun altro. E chissà che l’esperienza non risulti gratificante e, da due che erano, si formi un’unica grande sfera, splendente e di modello per le altre.

Sarei felice di dibattere con voi queste cose. La mia opinione può essere salda in me, ma mai perfetta; e ascoltare le motivazioni altrui contribuisce senz’altro a perfezionarla.

mercoledì 21 ottobre 2009

Diable diable d'homme

di Tommaso Giommoni

Un palazzo aspro, spigoloso ma dolce al contempo è sede di una mostra molto particolare, siamo a Ferrara e va in scena Giovanni Boldini.
Il Boldini è un pittore bizzarro , mondano di una mondanità evanescente, acuto di una profondità esemplare. Un lezioso cantore di virtù tutte borghesi che riesce a ritrarre con levità mai disattenta l’indole dei commedianti di quel mondo.
Giovanni Boldini (1842-1931) nasce in una Ferrara scossa dalle turbolenze della storia, tornata dopo la parentesi napoleonica sotto il dominio dei cardinali, e ormai in vista di entrare nel regno che di lì a poco sorgerà in Italia. Trasferitosi appena ventenne a Firenze si iscrive all’accademia delle belle arti; qui inizia a frequentare quel crocchio di “impressionisti” toscani noti come i macchiaioli. Il loro è un movimento intenso, di ribellione profonda verso l’equilibrio neoclassico ma anche verso la trascendenza, lugubre talvolta, di stampo romantico. Il macchiaiolo vuole innovare la pittura in senso antiaccademico, secondo quel gusto verista che di lì a poco si scorgerà nelle novelle del Verga.

La fase fiorentina incide molto sul pittore, è facile scorgere nei suoi dipinti cieli fatti apposta per un quadro del Fattori, tuttavia la sua“patria artistica” è senza ombra di dubbio Parigi.Quando il Boldini vi si trasferisce (siamo nel 1871) la Fancia ha appena inaugurato la sua terza repubblica e la capitale è l’epicentro di una rivoluzione la cui colonna portante è la nascita dell’impressionismo. I suoi teatri, i suoi caffè , i suoi salotti sono i nuovi luoghi di culto di una religione laica e mondana; ed il ferrarese, lui che è un vero e proprio animale da salotto, viene accolto con onore.

Boldini diviene ben presto il testimone di quel luccicate mondo opulento, l’attore irrinunciabile dal quale farsi ritrarre sarà considerato un obbligo d’appartenenza. Amico di Proust e di Degas, che non esitò a definirlo “Diable ,diable d’homme”, il Boldini diventa a pieno titolo pittore ufficiale del “bel mondo”.

La consacrazione del pittore emiliano è dovuta in primis al suo gusto squisito. Il tratto dell’artista si fa infatti sempre più raffinato fino a costituire una felice fusione di quelli che sono i sapori propri dell’impressionismo ed un delicato accenno di realismo. È una pittura “formale” ma sbarazzina, ammiccante a tratti, dalla quale non è difficile scorgere accenni di malizia.

Il Boldini è un pittore moderno, squisitamente decadente; un osservatore acuto quanto schiavo di un mondo dominato dall’apparire.

È nel natio borgo ferrarese che si celebra, con questa mostra, Giovanni Boldini. Un pittore originale ma anche un inguaribile esteta, “L’artista della decadenza estrema” come venne definito.